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Responsabilità civile dei magistrati

La responsabilità civile dei magistrati nell’ambito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie è disciplinata dalla legge n. 117 del 13 aprile 1988 (c.d. “legge Vassalli”), approvata a seguito del referendum abrogativo della previgente normativa (d.p.r. n. 497/1987).
La necessità di un intervento legislativo, diventata ormai ineludibile, ha portato il Governo alla presentazione di una proposta di legge di riforma della disciplina vigente che è stata definitivamente approvata il 24 febbraio 2015.

La legge n. 18/2015, nell’ottica di adeguare l’ordinamento italiano alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, modifica in più punti la l. n. 117/1988, mantenendo tuttavia inalterato il principio della responsabilità indiretta dei magistrati, e agendo sotto il profilo della limitazione della c.d. “clausola di salvaguardia”, della ridefinizione delle fattispecie di colpa grave, eliminando il filtro endoprocessuale di ammissibilità della domanda e rendendo più stringente la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile.

La L. Vassalli prevede, all’art. 2, che “chiunque abbia subito un danno ingiusto, a causa di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali”. A seguito della riforma viene ampliato lo spettro delle ipotesi del risarcimento dei danni, patrimoniali e non, attraverso l’eliminazione della norma di chiusura “che derivino da privazione della libertà personale”, precedentemente prevista dal comma 1 dell’art. 2.

Rimane, invece, invariato, il principio di responsabilità indiretta, per cui il cittadino che ha subito un danno ingiusto a causa del magistrato dovrà agire, tramite l’apposita azione, esclusivamente nei riguardi dello Stato, il quale si rifarà in un secondo momento sul giudice responsabile, fatta salva l’ipotesi di cui all’art. art. 13, comma 1, della l. n. 117/1988, che prevede che il cittadino, laddove il danno causato dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni consegua ad un fatto costituente reato, possa esperire l’azione civile per il risarcimento nei confronti del magistrato e dello Stato secondo le norme ordinarie.

Quanto al requisito dell’ingiustizia, il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni oppure conseguente “a diniego di giustizia”.
Con la riforma, il legislatore ha provveduto a ridisegnare le fattispecie di colpa grave, novellando l’intero comma 3 e aggiungendo un comma 3-bis all’art. 2 della legge Vassalli. In particolare, prendendo spunto dalle indicazioni emerse dalla giurisprudenza, secondo la quale, la colpa grave si concretizza in una violazione “grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero” la legge del 2015 ha soppresso innanzitutto il riferimento alla “negligenza inescusabile” prima previsto, stabilendo così che i comportamenti dei magistrati che rientrano nelle ipotesi di colpa grave sono tali ope legis.

Le ipotesi di colpa grave previste dal novellato comma 3 dell’art. 2 sono le seguenti:

  • la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione Europea;
  • il travisamento del fatto o delle prove;
  • l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, o, viceversa, la negazione di un fatto incontrastabilmente esistente;
  • l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge o senza motivazione.

L’art. 3 disciplina, invece, il “diniego di giustizia” che dà luogo alla responsabilità civile del magistrato. Secondo il comma 1, lasciato inalterato dalla riforma, esso si configura nei casi di ritardi, rifiuti o omissioni del magistrato nel compimento di uno o più atti di ufficio, quando “trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria”.

Inoltre, nel caso in cui il ritardo o l’omissione, immotivati e ingiustificati, riguardino direttamente la libertà personale dell’imputato, la scadenza è diminuita improrogabilmente a cinque giorni, a partire dal deposito dell’istanza, o è coincidente con lo stesso giorno in cui si è verificata una situazione (o è decorso un termine) che renda incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale (art. 3, comma 3, l. n. 117/1988). La legge Vassalli, anche nella riforma, prevede l’applicazione della c.d. “clausola di salvaguardia” di cui all’art. 2, comma 2, la quale stabilisce che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove“. In tali ipotesi, la tutela delle parti è esclusivamente di natura endoprocessuale, potendo attuarsi attraverso l’impugnazione del provvedimento giurisdizionale che si assume essere viziato. Tuttavia, pur confermando che il giudice non può essere chiamato a rispondere per l’esercizio dell’attività interpretativa della legge e valutativa del fatto e delle prove, la riforma ha comunque delimitato l’ambito di applicazione della clausola in esame, escludendo dalle ipotesi di irresponsabilità del magistrato, i casi di dolo e colpa grave.

Per quanto concerne l’azione in giudizio, chi ha subito il danno ingiusto non può agire direttamente nei confronti del magistrato, ma contro lo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 4). La competenza spetta al tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle disp. att. c.p.p.

L’azione può essere esercitata soltanto quando siano stati già esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e in ogni caso quando non è più possibile modificare o revocare il procedimento, ovvero se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. L’azione, va proposta entro tre anni (in luogo dei precedenti due), a pena di decadenza, a partire dal momento in cui è possibile esperirla, ovvero dopo tre anni dalla data in cui il fatto è avvenuto (nel caso in cui il grado del procedimento in cui si è verificato il fatto non sia ancora concluso), o, nei casi previsti dall’art. 3 entro tre anni (in luogo dei precedenti due), dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull’istanza.

In nessun caso, comunque, il termine può decorrere nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto. La l. n. 18/2015 è intervenuta anche sul c.d. “filtro di ammissibilità”, ovvero la previsione contenuta nell’art. 5 della l. n. 117/1988, oggi abrogato, secondo la quale, il tribunale del distretto di corte d’appello, sentite le parti, doveva dichiarare l’ammissibilità o meno della domanda e disporre per la prosecuzione del processo. Per effetto dell’abrogazione, dunque, viene cancellata la delibazione preliminare di ammissibilità (consistente in un controllo dei presupposti, del rispetto dei termini e della valutazione della fondatezza) dell’azione di risarcimento verso lo Stato. A seguito dell’accertamento della responsabilità del magistrato, ed entro due anni (in luogo di un anno, come previsto dalla precedente normativa) dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, lo Stato esercita obbligatoriamente l’azione di rivalsa nei confronti dello stesso, ex art. 7, comma 1, l. n. 117/1988, novellato dalla l. n. 18/2015, nel caso di diniego di giustizia, ovvero per violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione Europea nonché per travisamento del fatto o delle prove quando determinati da dolo o negligenza inescusabile.

Viene confermata dalla riforma la sola responsabilità per dolo dei giudici popolari ed estesa quella dei cittadini estranei alla magistratura, che formano o concorrono a formare organi giudiziari collegiali, prima prevista per dolo e colpa grave (solo per l’ipotesi di affermazione o negazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa o meno dagli atti del procedimento), anche all’ipotesi di travisamento del fatto o delle prove.
L’azione è promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale (art. 8 l. n. 117/1988). Quanto alla misura della rivalsa, il comma 3 come modificato dall’art. 5 della l. n. 18/2015, eleva la soglia di un terzo precedentemente prevista, disponendo che la stessa “non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità“. Tale limite è escluso, tuttavia, se il fatto è stato commesso con dolo.

Marco Fini

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