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Possibili scenari psicologici alla fine del lockdown

Punto focale è l’individuo, non il problema. Lo scopo non è quello di risolvere un problema particolare, ma di aiutare l’individuo a crescere perché possa affrontare sia il problema attuale, sia quelli successivi in maniera più integrata.” Carl Rogers

 

Questo periodo, nella nostra visione professionale di psicoterapeuti, con una traslazione della visione globale, ci porta a riflettere oltre il “semplice” isolamento sociale: tale condizione ci obbliga a immaginare un rientro alla realtà diversa, nei tempi, nelle dinamiche sociali e negli spazi condivisi. È oramai ampiamente acquisito che la personalità è un sistema complesso che si sviluppa e funziona tramite interazioni continue con l’ambiente secondo rapporti di influenza reciproca. Nel corso della nostra esistenza, infatti, abbiamo affrontato situazioni sfavorevoli dalle quali abbiamo acquisito nuove competenze, migliorando l’adattamento, o ne siamo stati sopraffatti, predisponendoci così a fragilità caratteriali che hanno condizionato il nostro pensiero.

Alla reazione di allarme con cui l’organismo risponde inizialmente ad uno stress, segue una risposta utile di adattamento. Però, se gli stimoli stressanti continuano ad esercitare la loro azione, come nel caso attuale, può accadere che le capacità di reazione dell’organismo vengano superate, la sua resilienza venga meno e subentri una fase di esaurimento della risposta positiva, fase nella quale possono andare a disgregarsi le diverse strategie di adattamento, manifestando, così, difficoltà emotive che alterano diverse aree del vivere quotidiano (capacità di stare in famiglia, con i colleghi) o anche le funzioni fisiologiche (sonno, digestione, alimentazione). Ogni persona è unica, il che significa che, aldilà del trauma parzialmente condiviso, in ciascuno possono comparire manifestazioni (più o meno) patologiche le quali, conducendo a diagnosi diverse, incidono sulla nostra predisposizione essenziale, interagendo con ciò che è stato “portato via”, modificando le prospettive di vita, alterando la vulnerabilità allo stress, pur considerando la presenza e/o assenza di strategie adeguate di fronteggiamento. Ogni individuo reagisce in maniera diversa ai vari eventi con i quali è costretto ad interagire e, “omissis…la risposta patologica dipende da numerosi fattori tra cui, oltre alle condizioni mentali della persona al momento del verificarsi dell’evento, il modo del tutto personale di spiegarsi l’evento all’interno della storia della propria vita e il significato personale che la persona stessa attribuisce all’evento…omissis” (cit. Toppetti F. “il danno psichico”. Maggioli Editore, Dogana RSM, 2005).

Al termine del lockdown potremo trovarci di fronte a diversi scenari: pazienti già diagnosticati e in trattamento che presentano un aggravamento psicopatologico per la chiusura in casa e/o la difficoltà nel portare avanti adeguatamente i percorsi di cura, nuove forme di disagio, fino ad oggi latenti, oppure la comparsa di “disturbi” che fino ad ora risultavano non diagnosticati o curati in modo non adeguato (disturbo bipolare, dipendenza da sostanze…).

Noi terapeuti, fino ad ora, ci siamo mossi con l’obiettivo di mantenere la vicinanza ai pazienti più gravi, modificando le modalità di accesso al percorso di cura (visite online, messaggistica più frequente, follow-up infrasettimanale…) e producendo delle linee guida, sulla gestione psicologica della quarantena, che hanno rivolto l’attenzione di tutta la comunità su elementi quali: mantenimento dei ritmi sociali, cura di sé e del proprio ambiente domestico, regime alimentare adeguato, corretto ritmo sonno-veglia, attività fisica regolare, conservazione dei rapporti sociali ed un giusto rapporto tra ozio-attività di svago-impegno scolastico o lavorativo (Cit. Lancet e American Psychiatric Association).

Ma cosa si prospetta e cosa potrebbe accadere alla fine del lockdown per tutti, aldilà dell’appartenenza ad una categoria psicopatologica?

Vista la premessa, sappiamo che tutti “porteremo” i segni di quanto accaduto in queste settimane, ma è importante che ognuno di noi presti attenzione a cosa accade all’interno del proprio sè, alle emozioni che compaiono, alle reazioni che ci abitano e ai pensieri che ricorrono. Una volta che avremo prestato la giusta attenzione all’esperienza emotiva interna, diventerà più facile scegliere cosa fare o almeno avere un’idea più chiara di quale strada sia possibile per noi. Potremmo, ad esempio, sentire il bisogno di recuperare i progetti lasciati a metà, investire nel lavoro, fare delle scelte relazionali importanti o cercare un proprio spazio di ascolto nel quale, un professionista, ci aiuti ad identificare cosa succede dentro di noi, nel nostro corpo, nelle nostre emozioni o pensieri. Lo spazio terapeutico diverrà, così, “un ambiente sufficientemente sicuro” (Cit. D. Winnicott) da porsi come esperienza correttiva, nella quale dare un nome alle esperienze interne e, attraverso la loro rielaborazione, permetterci di esprimere appieno le nostre potenzialità e recuperare la possibilità di guardare al futuro.

Noi psicoterapeuti partiremo nell’esplorare, grazie al racconto dei pazienti, proprio i cambiamenti sopraggiunti durante il lockdown e i vissuti di quel periodo che, probabilmente, hanno inizialmente motivato la richiesta di aiuto: convivenza forzata, condivisione di spazi non sempre adeguati al numero di persone o alle esigenze di ognuno, senso di vulnerabilità, impotenza, perdita della propria quotidianità e delle dinamiche sociali. In questa fase sarà importante lasciare al paziente la possibilità di ricostruire il proprio vissuto e le personali letture ed interpretazioni degli accadimenti, così da aiutarlo ad attribuire un primo senso ed organizzare quanto sembrava più il frutto di una imposizione esterna alla quale poteva solo ““adeguarsi”; così facendo, le manifestazioni sintomatologiche potranno assumere l’aspetto di simboli che aiutano il singolo a comprendere il proprio funzionamento soggettivo. Solo dopo aver adeguatamente osservato e indagato l’evento critico ci si potrà focalizzare sulla risposta alla situazione e, noi clinici, dovremo differenziare cosa attiene al “semplice” vissuto traumatico e cosa invece era antecedente ed è stato solo slatentizzato dalle limitazioni e cambiamenti causati dalla pandemia. Questa prima parte permetterà al professionista di costruire quella che viene chiamata “formulazione del caso” e rappresenta il punto di partenza per capire se siamo di fronte ad un disagio (la sofferenza non è pervasiva, ma riguarda alcuni specifici momenti ed alcune specifiche condizioni), ad un disturbo (la sofferenza è più intensa, permane nel tempo e i sintomi divengono evidenti e manifesti coinvolgendo in maniera significativa e pervasiva, ricorrente o persistente, le principali aree del funzionamento biopsicosociale dell’individuo) o ad una sindrome (dove il disturbo è ormai protratto da anni e spesso complicato da “cure” improprie) e per decidere, insieme al paziente, gli obiettivi condivisi del nostro lavoro terapeutico.

Marta Giacomini

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