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IL GIAINISMO “la non violenza”

di Leonardo Vittorio Arena

La non violenza rappresenta un’esigenza ricorrente nelle filosofie indiane, ma nel giainismo la si persegue sistematicamente, persino ossessivamente a detta dei suoi detrattori. Come i seguaci dei Veda, anche i giaina considerano la loro religione eterna, senza inizio né fine. Ritengono che i sacrifici vedici siano inevitabilmente vincolati alla violenza, anche quando la vittima è sostituita da una icona o una effigie.[1] Da qui il tentativo di reinterpretare il sacrificio, perno della dottrina vedica, sino a cancellarne il valore, laddove il fuoco del sacrificio è dato dal calore interno, dall’ascesi: il termine sanscrito, tapas, comporta entrambe le accezioni. L’oblazione viene inquadrata in prospettiva metaforica, in quanto lo sforzo stesso, mentale e corporeo dell’adepto rappresenta gli utensili per il rito. Si tratta di controllare sino in fondo i processi interiori, tentando di ridurre per quanto è possibile l’azione, germe di ogni nefandezza. Si parla del giainismo come di una dottrina nàstika o eterodossa; in realtà, esso si contrappone ai Veda, ma l’interpretazione metaforica del sacrificio permette di attenuare il divario rispetto alla ortodossia bràhmanica. Come nel buddhismo, ci sarebbero differenze, ma anche elementi di continuità con i Veda e le Upanishad. Si ridimensiona la sin troppo semplicistica classificazione tradizionale.

La parola giaina, che caratterizza gli affiliati del culto, deriva dalla radice ji, ‘vincere’, termine del gergo militare che qui è trasferito alla sfera delle passioni: i giaina vincono, trionfano sugli impulsi riuscendo a piegare il corpo alla loro volontà. D’altra parte, la matrice marziale di questa religione è evidente: il più illustre dei suoi maestri, il riformatore Vardhamàna, il quale assunse il titolo di Mahàvìra (‘Il grande eroe’), contemporaneo del Buddha, apparteneva come lui alla classe dei guerrieri.[2] I giaina, almeno ai primordi del culto, vantavano una notevole prestanza fisica, componente che li rendeva idonei a inaudite prestazioni.

[1] P. Dundas, Il  giainismo, Roma, Castelvecchi 2005, p. 42.
[2] Il termine gana, che designa la comunità giaina, indicava in origine le confraternite guerriere. Il nesso tra religione e lessico militare è molto marcato in India.

Esiste una catena di trasmissione dottrinale, il cui capostipite è il leggendario Rishabha, e che ammette ventiquattro maestri, i cosiddetti ‘costruttori del canale’ (tìrthankara), in quanto i loro insegnamenti permettono di travalicare il ciclo delle nascite e delle morti, equiparato a un’ampia distesa d’acqua, per attingere la liberazione. Si considerano questi personaggi onniscienti, oltre a qualificarne il comportamento come adeguato al luogo e al momento; sono autorevoli, degni di considerazione e venerazione. Di loro, Mahàvìra sarebbe l’ultimo; sappiamo qualcosa soltanto del suo diretto predecessore Pàrçva, personaggio storico. Anche la datazione di Mahàvìra è incerta, e varia in conformità alle due diramazioni del giainismo; lo si colloca, approssimativamente, tra il 599 e il 510 a. C. Una illustrazione delle primitive dottrine giaina, ricollegabili a Mahàvìra, si trova nella ponderosa Vyàkhyàprajñapti (“Esposizione degli insegnamenti”), anch’essa di cronologia dubbia. Vi si trovano in embrione spunti da sviluppare in seguito: il principio della non violenza e la sua connessione con le azioni, l’esaltazione dell’asceta errante e l’esigenza della liberazione al fine di liberare il proprio sé vitale (jìva).

In ogni tempo la legge dei saggi prescrive di non danneggiare alcuna creatura vivente in alcun modo[1]: a questo si riferisce il termine ahimsà, lo stato di innocuità assoluta. Tutto l’universo è animato da una pluralità di jìva, termine che può essere anche reso con ‘individualità vivente’, ma non con ‘anima’, in quanto evocherebbe una tonalità greca, o cristiana, che qui è assente. Si viene a scontare gli effetti del comportamento violento attraverso una serie di rinascite[2]; è il presupposto della legge del karma, condivisa dal giainismo.

Per conseguire la liberazione e sottrarsi al condizionamento si suggerisce di vagare in qualità di asceti e mendicanti senza fissa dimora, enfatizzando la solitudine, quindi la libertà di tale stato. L’uomo viene considerato il miglior amico di se stesso.[3] Il principio verrà stemperato attraverso la formazione delle prime comunità; del resto, lo stesso Mahàvìra se ne andava in giro con un corteo di discepoli.

Questi primi spunti dottrinali alimentarono un marcato rigorismo che, col passare del tempo portò a una scissione. Mahàvìra e i suoi seguaci, probabilmente tutti maschi, non

[3] Àcàràngasùtra, a cura di Muni Jambùvijaya, Delhi 1978, 1, 4, 1-2.
[4] Ibid., 1, 1.
[5] Ibid., 1, 3, 3, 4.

indossavano vestiti, in parte per mostrare la loro povertà e umiltà, in parte perché questi potevano sporcarsi e quindi attrarre e uccidere insetti e microbi in quantità. Si pensava che la nudità fosse necessaria per rispettare alla lettera il principio della ahimsà. Almeno questa fu l’interpretazione di una delle due correnti, quella dei digambara; come indica il termine, erano ‘vestiti d’aria’. La loro intransigenza li spinse a rifiutare la ciotola, e usavano il cavo delle mani per alimentarsi dello scarso cibo consentito.[1]

D’altra parte, gli adepti çvetàmbara, come da denominazione, ‘indossano abiti bianchi’, e usano la ciotola. Per loro è determinante la nudità del cuore, non quella esteriore; le persone possono mancare di abiti, ma continuano a coltivare illusioni: pertanto, occorre stabilire le giuste priorità spirituali. Un digambara  replicherebbe che la nudità rivela l’anticonformismo dell’asceta,[2] la libertà totale rispetto alle convenzioni. Al  che l’altro potrebbe replicare che non ci si deve fissare troppo sulla nudità; altrimenti, basterebbe spogliarsi per ottenere la liberazione.

Secondo gli çvetàmbara, è fuorviante considerare la ciotola un possesso: qualsiasi elemento, persino il corpo umano, potrebbe essere un bene o una proprietà; per loro il rigorismo estremo dei digambara non ha senso. Entrambe le correnti permettono alle donne di vestirsi, in apparenza per motivi igienici, collegati alle mestruazioni; in realtà, perché la loro nudità non sia fonte di eccitazione per i confratelli maschi o i viandanti: un alibi ipocrita, che potrebbe valere anche per i maschi, e che nel giainismo è stato rapportato quasi sempre alle femmine.

Sulla questione della donna, la posizione digambara, come al solito estremista, è più limpida di quella çvetàmbara. Enfatizzando la nudità, essi escludono automaticamente la possibilità della liberazione femminile. Le ragioni addotte per interdire la nudità alle donne non sono soltanto sociali, ma attingono a forti pregiudizi ideologici, nel presupposto della loro inferiorità. La rinascita del jìva in forma femminile comporterebbe un degrado, in quanto determinata da azioni malvagie commesse in una vita precedente.[3] Secondo i

[6] Ciò ricorda una storia apocrifa del Cristo secondo la visione sufi. Un mendicante gli insegnò a rinunciare persino alla ciotola, bevendo l’acqua del mare con le mani a coppa. Gesù, che riteneva di aver abbandonato qualsiasi proprietà terrena, ne trasse insegnamento.
[7] Il termine asceta è una traduzione di muni, che sarebbe scorretto e inadeguato rendere con ‘monaco’. Le comunità giaina non sono Ordini  monastici, bensì veri e propri gruppi di asceti che si davano un’organizzazione per ovviare alle difficoltà del pellegrinaggio solitario.
[8] Dundas, p. 91.

digambara, l’asceta donna può liberarsi alla sola condizione di rinascere uomo. Pur essendo più aperti, anche gli çvetàmbara sembrano condividere la concezione dell’inferiorità femminile, come dimostrerebbe l’obbligo degli omaggi che la donna, persino veterana, deve tributare ai giovani novizi nell’Ordine;[1] d’altra parte, anche nel buddhismo esiste una disparità di prescrizioni o un’asimmetria tra i monaci e le monache. Gli çvetàmbara, però, attenendosi ai testi sacri non negano la possibilità della liberazione femminile.

L’antagonismo tra gruppi religiosi nella cultura indiana possiede una valenza specifica, e non dà sempre luogo ad aspre polemiche o rivalità. Per questo la contrapposizione tra digambara e çvetàmbara non va enfatizzata. Si pensi che spesso lunghi pellegrinaggi venivano compiuti da coalizioni di membri di entrambe le correnti; invece, le dispute delle rispettive fazioni in merito alla proprietà dei luoghi sacri indicano una evidente ostilità. Il dissenso verteva soprattutto sulla questione del nudo, su cui non c’erano possibilità di compromessi o intese. L’antagonismo alimentò perlopiù l’indifferenza o il disinteresse di un gruppo nei confronti dell’altro.[2]

 

Sul piano della condotta sono determinanti cinque voti, dei quali il primo insiste sulla ahimsà. Gli altri riguardano il rispetto della verità (satya) attraverso i pensieri, le azioni e le parole; l’astensione dal furto; la rinuncia alla sessualità e alle passioni; la rinuncia alla presa di possesso attraverso pensieri, parole e azioni.  La realtà può essere suddivisa in categorie. Fondamentalmente, attraverso la contrapposizione tra vivente (jìva) e non vivente (ajìva); secondariamente, attraverso gli effetti del karma, relativi al suo flusso (àsrava), al legame da esso suscitato (bandha), al mantenimento del legame (samvara), ma anche all’espurgo (nirjarà) dei depositi karmici e quindi alla loro distruzione in vista della liberazione (moksha), attraverso cui il sé si svincola dalla materia.[3]

Il vivente rappresenta una individualità che ha facoltà di liberarsi oppure, in una quantità ristretta di casi, ne è privo.[4] La presenza di individui abhavya, inadatti o non predestinati alla liberazione, denuncia gli aspetti elitari della dottrina. Il jìva penetra nei corpi,

[9] Çakatàyana, Strìnirvànaprakarana, tr. P. S. Jaini; in: Idem, Strìnirvànakevalibhuktiprakarane, a cura di Muni Jambùvijaya, Bhavnagar 1974, p. 27.
[10] Dundas, pp. 86-89.
[11] TS, 1, 4.
[12] Ibid., 2, 7.

permettendo loro di funzionare intellettivamente: rappresenta l’aggiunta della consapevolezza, e se ne distoglie al momento della morte. Si adatta al corpo in base all’ambiente che trova e alle proporzioni di questo, per cui un elefante avrà un jìva enorme, a differenza di una formica.[1] Gli obiettori negano l’esistenza del jìva, in quanto un corpo ha lo stesso peso prima e dopo la morte, un’argomentazione simile a quella dei positivisti dell’800. I giaina replicano per analogia: si può di riempire d’aria una borsa, senza per questo che aumenti di peso[2]; lo stesso vale nel rapporto del jìva col corpo. Nessuno dubita dell’esistenza del vento, pur non potendolo percepire.[3] Dopotutto, il vivente è attingibile da tutti coloro che coltivino la consapevolezza spirituale: si può fare affidamento sulla testimonianza dei maestri onniscienti; un’argomentazione che non soddisferà il materialista.

L’universo ospita una pluralità di jìva, i quali posseggono tutti le stesse caratteristiche, modificate dai diversi destini dei karma, in base ai quali si generano l’illusione e l’ignoranza, distogliendo il vivente dalla perfezione originaria. Si ammette anche una catena evolutiva in base all’effettivo numero di organi di senso, partendo dai microbi, i meno dotati, e, attraverso vari transiti, arrivando agli uomini, i quali come gli dèi e gli animali hanno tutti e cinque i sensi. D’altra parte, la liberazione dal karma sembra il privilegio del solo essere umano;[4] le altre creature dovranno attendere di rinascere in forma umana.

Il giainismo presta attenzione a tutte le forme di vita, ravvisando nelle piante un’elevata attività cosciente, che consentirebbe loro di germinare in certe stagioni dell’anno; sarebbe attestata anche dal desiderio di riproduzione sessuale e dalle emozioni, come la paura, che attenuano la distanza tra piante ed esseri umani. Un gradino più elevato nella scala evolutiva è riservato agli animali, i quali sono ancora più vicini agli uomini per la loro capacità di ricordare le vite precedenti e praticare attività spirituali quali il digiuno e la contemplazione, il che permetterebbe loro la rinascita.[5]

[13] “A seconda della quantità di spazio disponibile, grande o piccolo che sia, il jìva (ne occupa una porzione), come la luce che si irradia da una lanterna” (ibid., 5, 16).
[14]Dundas, p. 137.
[15] Viyàpannatti, 18, 7.
[16] Dundas, p. 133.
[17] Uvavàiya suttam, tr. K. C. Lalwani, Jaipur 1988, pp. 264 e sgg.

FONTE:

Leonardo Vittorio Arena, Il pensiero indiano, Milano, Mondadori 2011 (reprint: Storia del pensiero indiano, vol. II, 
e-book 2020 – di prossima pubblicazione).

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